Quale lezione può arrivare dalla Spagna sulla riforma del lavoro?

La riforma del mercato del lavoro approvata in Spagna affronta in maniera organica e complementari diversi aspetti. Ridà centralità alla contrattazione collettiva e riduce la precarietà. E, in una fase di lunga crisi, dà quindi risposte adeguate. Il Paese iberico è oggi uno dei contesti internazionali più vivi nel ridefinire un quadro di regole nel mercato del lavoro post-pandemia. Ma che cosa prevede la legge?

Entrato in vigore il 31 dicembre 2021, il provvedimento sta già mostrando i primi effetti. Tra questi, il suo principale obiettivo: il potenziamento dei contratti a tempo indeterminato. Secondo gli ultimi dati elaborati dall’Istituto Nazionale di Statistica (Ine), oggi 12,8 milioni di lavoratori hanno un contratto stabile. Una cifra record. Ad aprile sono stati firmati 1.450.093 contratti. Di questi, 698.646, ovvero il 48,2%, a tempo indeterminato

Come è stata disegnata la riforma del lavoro dal governo della Spagna

Gli obiettivi principali sono essenzialmente quattro. Riconfigurare la gerarchia dei processi di contrattazione, definire regole più stringenti sui lavoratori impiegati medianti processi di esternalizzazione, ridurre drasticamente la quantità di lavoro temporaneo, normalizzare lo strumento delle integrazioni salariali (Erte).

Sul primo punto, la riforma interviene sulla cessazione della validità dei contratti collettivi di settore una volta scaduti. Precedentemente, alla data di cessazione, venivano sostituiti con contratti decentrati aziendali, che riducevano drasticamente i livelli salariali di settore a parità di orario. Il contratto aziendale potrà essere applicato dall’impresa solo ove preveda condizioni retributive più favorevoli di quello di settore. Per quanto riguarda la riduzione della precarietà del mercato del lavoro spagnolo, la riforma si muove essenzialmente in tre direzioni. Una radicale limitazione delle forme di esternalizzazione del lavoro mediante appalti a imprese multiservizi (contratti interinali), un adeguamento dei salari dei lavoratori esternalizzati a quelli dei lavoratori interni coinvolti e la riduzione a tre delle precedenti molteplici forme contrattuali a tempo determinato.

Le forme di contratto contingente formativo

Due sono forme di contratto contingente formativo: creazione alternata retribuita e tirocinio professionale. La prima è rivolta a giovani sino a 30 anni di età (con esclusione delle professioni richiamate dal Catálogo de Cualificaciones Profesionales), con durata massima di 24 mesi. La retribuzione sarà determinata su base individuale e non potrà essere inferiore al 60% e 75% rispetto a quanto previsto dall’accordo collettivo per un lavoratore della medesima categoria. Comunque non potrà mai essere inferiore al minimo salariale su base giornaliera.

Il secondo contratto formativo ha una durata massima compresa tra 6 mesi e 1 anno. Potrà essere svolto entro i 3 anni successivi all’ottenimento della relativa abilitazione. Al di là dei contratti formativi è previsto un unico contratto a tempo determinato strutturale, caratterizzato da una più stringente e circoscritta causalità riferibile a circostanze produttive specifiche eccezionali o sostitutive. Viene introdotto anche un inasprimento delle sanzioni per le irregolarità nell’applicazione di questi contratti, con sanzioni pecuniarie fino a 10 mila euro per ogni dipendente interessato, e una più rapida trasformazione in tempo indeterminato. Al di fuori di queste situazioni, il contratto a tempo determinato non può essere utilizzato.

Che cosa può imparare l’Italia dall’Ovest dell’Europa?

La nuova legge ridisegna lo strumento delle integrazioni salariali, molto usate durante la fase pandemica, estendendolo in uso organica. In caso di crisi e dopo l’autorizzazione da parte del Consiglio dei ministri, le imprese possono attivare le integrazioni salariali per un massimo di un anno e con esenzioni contributive che diminuiscono dal 60 al 20%. In caso di ristrutturazione settoriale la misura si può attivare per sei mesi, estendibili a un anno, con esenzioni del 40%. Di fatto, si tratta di un meccanismo automatico che corresponsabilizza imprese e governo nel sostentamento dell’occupazione e nelle trasformazioni dei settori produttivi tutelando il tessuto imprenditoriale, il patrimonio delle imprese in termini di competenze e il reddito dei lavoratori, oltre che la loro stessa relazione lavorativa.

Ma quale insegnamento l’Italia  può trarre dall’esperienza spagnola? In una fase di crisi perdurante, di caduta dei salari e di aumento dell’inflazione, una riforma del lavoro dovrebbe affrontare in uso organica e complementare diversi aspetti. Tra questi, livelli minimi salariali, riduzione della precarietà, dinamiche della contrattazione collettiva. Rigenerando un vecchio quadro normativo del mercato del lavoro, non più adatto alla fase economica e storica contemporanea. Con una condizione economica sempre più vicina a quella di una economia di guerra. Non a caso il principale strumento di integrazione salariale in Italia fu generato nel pieno della crisi della Seconda guerra Mondiale.

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