Gaza, cresce il fronte contro Israele: 5 Paesi hanno già richiamato il proprio ambasciatore

Si allarga il fronte contro Israele. Oggi il Bahrein ha richiamato il proprio ambasciatore a Tel Aviv, espulso quello israeliano e interrotto i rapporti economici con lo Stato ebraico. La monarchia del Golfo è solo l’ultima di una lista di Paesi – dalla Giordania alla Bolivia – che negli ultimi giorni hanno deciso di prendere le distanze da Israele, dopo quasi un mese di bombardamenti senza precedenti sulla Striscia di Gaza, con la morte di migliaia di civili.

Manama aveva normalizzato il rapporto con Israele e stabilito relazioni diplomatiche appena tre anni fa, con gli accordi di pace di Abramo promossi dall’ex presidente Usa Donal Trump. Oggi la rottura a sostegno “della causa palestinese e del diritti legittimi del popolo palestinese”.

La Giordania richiama l’ambasciatore

Solo ieri la Giordania aveva deciso di richiamare “immediatamente” l’ambasciatore per “condannare la guerra israeliana che uccide degli innocenti a Gaza”. Amman ha denunciato la “catastrofe umanitaria senza precedenti provocata dai bombardamenti dell’esercito. Il ministro degli Esteri Ayman Safadi ha precisato che l’ambasciatore giordano e quello israeliano (che già ha lasciato il Regno) potranno tornare ai propri posti solo quando Israele avrà cessato le ostilità nell’enclave sotto assedio.

Certo, la decisione non è destinata a spostare gli equilibri della guerra. Eppure ha un peso la rottura della Giordania, unico Stato dell’area con cui Israele ha siglato un accordo di pace che regge con alti e bassi dal 1994. Ma l’escalation del conflitto registrato in quesi giorni, con il bombardamento perfino di campi profughi e la morte di centinai di civili, deve aver colmato la misura nel Regno al confine con in Israele, dove vivono quasi 3 milioni di palestinese.

Lo strappo di Bolivia, Cile e Colombia

Martedì era stata la volta della Bolivia ad annunciare lo stop alle relazioni diplomatiche con Israele. Il governo di La Paz guidato del presidente Luis Arce ha parlato di “crimini di guerra” commessi dall’esercito nell’enclave palestinese. Da qui la decisione di interrompere le relazioni con Tel Aviv come “segno di condanna dell’aggressiva e sproporzionata offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza”.

Nel giro di poche ore si sono aggiunti il Cile e la Colombia, che hanno richiamato i propri ambasciatori per consultazioni. Il governo di Santiago in un comunicato ha spiegato di aver richiamato il proprio rappresentante diplomatico a causa delle “inaccettabili violazioni del diritto internazionale umanitario che Israele ha commesso” nell’enclave, sottoponendo la popolazione palestinese a una “punizione collettiva della popolazione civile palestinese”.

Gaza, colpita da un raid di Israele
Gaza | Foto UNRWA /Mohammad Hinnawi

Sui social network il presidente Gabriel Boric è stato ancora più diretto: “420 bambini vengono feriti o uccisi ogni giorno a Gaza dallo Stato di Israele guidato da Netanyahu. Non sono ‘danni collaterali’ della guerra contro Hamas, ma le sue principali vittime, insieme a civili innocenti, soprattutto donne”, ha scritto citando i numeri dell’Unicef.

Mossa analoga è stata presa dalla Colombia. Il presidente Gustavo Petro ha accusato lo Stato ebraico di aver compiuto un “massacro del popolo palestinese”. La scelta di Bogotà è l’epilogo di un botta e risposta con Tel Aviv che va avanti sin dalle prime ore. La condanna del governo era arrivata subito dopo l’inizio dell’offensiva lanciata da Israele su Gaza come rappresaglia all’attacco messo a segno da Hamas il 7 ottobre. In un crescendo di accuse, Petro aveva parlato di “genocidio” e paragonando la Striscia a un “campo di concentramento”, dicendosi pronto a interrompere le relazioni diplomatiche. Per tutta risposta, il ministero degli Esteri israeliano lo scorso 16 ottobre ha convocato l’ambasciatrice colombiana a Tel Aviv.

Tensioni con Turchia e Egitto

Anche con la Turchia la tensione resta alta, con il presidente Recep Tayyip Erdogan che ha accusato Israele di commettere “crimini di guerra” a Gaza e ha annunciato che “farà in modo che i responsabili vengano assicurati alla giustizia”. Il leader turco è ormai schierato apertamente con Hamas, definito come “un gruppo di liberazione che lotta per proteggere la propria terra”. In risposta alle parole al vetriolo di Erdogan, sabato scorso il ministro degli Esteri israeliano ha richiamato il proprio ambasciatore ad Ankara per “rivalutare” le relazioni con il Paese.

Con l’Egitto le relazioni sono più “civili” ma restano problematiche. Il valico di Rafah è l’unico punto di accesso a Gaza non controllato da Israele da cui finora sono entrati gli aiuti umanitari. Secondo il quotidiano israeliano Yedioth Ahronot, Israele sta aumentando le pressioni sul Cairo affinché accolga i profughi palestinesi dalla Striscia. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe contattato diversi leader internazionali per convincere il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ad accogliere gli abitanti di Gaza – o una parte – nella penisola del Sinai, zona deserta e priva di infrastrutture.

Cosa che fin qui il governo ha esplicitamente rifiutato di fare, temendo l’afflusso massiccio di rifugiati sul proprio territorio. Ieri il valico è stato finalmente aperto consentendo l’evacuazione di un numero ristretto di persone, poche centinaia, tra feriti palestinesi e cittadini stranieri. Proprio oggi il ministero degli Esteri egiziano ha annunciato che il Paese consentirà l’evacuazione di “circa 7mila” cittadini stranieri e con doppia nazionalità, senza tuttavia fornire una tabella di marcia.

Feriti palestinesi a Gaza dopo un raid israeliano
Gaza | Foto EPA/HAITHAM IMAD – Newsby.it

Onu: “A Gaza tragedia senza precedenti”

Intanto nella Striscia la situazione umanitaria resta catastrofica. Man mano che l’offensiva israeliana si fa sempre più martellante, cresce il bilancio delle vittime. Secondo il ministero della Sanità di Gaza, il numero dei morti ha superato quota 9mila, di cui oltre 3.770 bambini, 32mila i feriti.

Dopo il raid israeliano che ieri ha colpito per la seconda volta, in meno di 24 ore, il campo profughi di Jabalia, nel nord dell’enclave, causando la morte di decine di persone, l’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu ha parlato di “attacchi sproporzionati che possono costituire crimini guerra”.

Il sistema sanitario è ormai sull’orlo del collasso. Per questo il capo dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, è tornato a chiedere “almeno un pausa umanitaria” perché “nelle attuali condizioni è quasi impossibile” fornire assistenza medica e umanitaria alla popolazione della Striscia. Finora, secondo l’Oms, sono 14, su 38, le strutture sanitarie a Gaza fuori uso a causa della mancanza di carburante o perché danneggiate dai raid.

La portata della tragedia a Gaza è senza precedenti“, ha detto Philippe Lazzarini, commissario dell’Unrwa, dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, dopo aver visitato la Striscia per la prima volta dal 7 ottobre. Lazzarini ha rilanciato l’appello alla fornitura di carburante, necessario per alimentare i generatori che tengono accesi i macchinari negli ospedali, fanno funzionare gli impianti di desalinizzazione e i panifici. Una richiesta a cui Israele si oppone, temendo finisca nelle mani di Hamas. Dall’inizio del conflitto, ha ricordato, 70 persone dello staff dell’Unrwa a Gaza sono state uccise.

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