Gaza, il valico di Rafah resta chiuso. Niente aiuti umanitari. Perché è importante

Era attesa oggi l’apertura del valico di Rafah tra Egitto e Gaza per consentire finalmente l’ingresso nella Striscia degli aiuti umanitari alla popolazione, stremata da quasi due settimane di assedio, privata di acqua, cibo e carburante. Sembrava finalmente raggiunto un accordo mediato dal presidente Usa Joe Biden. Invece i palestinesi dovranno attendere ancora.

L’unico punto di accesso a Gaza non controllato da Israele è danneggiato, dopo i ripetuti raid subiti negli ultimi giorni. Gli scavatori egiziani stanno cercando di ripararlo. La notizia era stata diffusa ieri dai media egiziani. E anche il capo della Casa Bianca si era detto fiducioso. I camion carichi di aiuti che da giorni stazionano davanti a Rafah sono una ventina. Numeri che l’Organizzazione mondiale della Sanità considera comunque insufficienti.

Proprio il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus nel primo pomeriggio ha lanciato un altro appello: “Abbiamo bisogno di entrare per distribuire aiuti salvavita”, ha scritto su X. “Un altro rinvio si tradurrà in altra sofferenza e in altre morti”.

Il nodo degli aiuti umanitari

Israele ha dichiarato che accetterà solo il passaggio di cibo, acqua e medicinali. Il carburante, disperatamente necessario per alimentare gli ospedali e i sistemi di filtraggio dell’acqua, non fa parte dell’accordo.

In base agli accordi, alle Nazione Unite spetta il compito di monitorare il passaggio degli aiuti e verificare il contenuto dei camion prima dell’ingresso nella Striscia. Il coordinatore dell’Onu per i soccorsi di emergenza Martin Griffiths ha detto che Gaza ha bisogno di almeno centro camion di aiuti umanitari al giorno, molti di più di quelli che attendono di entrare nella Striscia.

All’origine dello stallo ci sono i timori dell’Egitto. Il Cairo si è detto disponibile a riaprire il valico per consentire l’evacuazione dei cittadini con passaporto stranieri oltreché l’ingresso degli aiuti umanitari. Di fondo resta la preoccupazione per un influsso massiccio di rifugiati palestinesi in fuga dalla guerra. Senza contare la minaccia mai sopita del terrorismo jihadista nel Sinai.

La storia travagliata del valico di Rafah

Il valico di Rafah è importante perché, dopo la chiusura degli altri due valichi controllati da Israele (Erez nel Nord e Kerem Shalom a sud), resta l’unico passaggio per i palestinesi della Striscia.

È il solo varco nei quasi 13 chilometri di confine tra Gaza e l’Egitto nella desertica regione del Sinai. È stato gestito dalla Autorità aeroportuale israeliana fino al 2005, quando lo Stato ebraico ha lasciato l’enclave e il controllo è passato alla missione dell’Unione europea (Eubam). Dal 2007, dopo la presa del potere a Gaza da parte di Hamas, Israele e Egitto hanno imposto forti limitazione al passaggio in uscita e in entrata dalla Striscia.

Nel 2008, il varco ha subìto un assalto in grande stile con tanto di bulldozer. Un fiume di circa 350mila palestinesi è riuscito a sconfinare in Egitto per pori fare ritorno nella Storica con viveri e taniche di carburante. Nell’estate del 2014, dopo l’operazione militare “margine protettivo” lanciata da Israele, si è giunti a un accordo per consentire l’evacuazione di feriti, malati e cittadini stranieri. Il genere di intesa a cui si lavora in questi giorni.

Anche in tempo di “pace” del resto per i palestinesi non è facile ottenere il permesso di lasciare la Striscia attraverso il varco. È necessaria una richiesta formale quattro settimane prima, che può essere respinta tanto dalle autorità di Gaza quanto da quelle egiziane. Secondo le Nazioni Unite, lo scorso agosto il Cario ha concesso a poco meno di 20mila persone di uscire dall’enclave.

Al Cairo il summit per la pace

Intanto le diplomazie sono al lavoro. Sabato in Egitto è in programma un “vertice per la pace” al quale dovrebbero partecipare una ventina di Paesi, tra cui l’Italia, per discutere di “sviluppi e futuro della causa palestinese e del processo di pace”. Se l’impasse a Rafah non si sciogliesse, obiettivo immediato del summit sarà proprio lo sblocco degli aiuti umanitari e l’uscita degli stranieri da Gaza attraverso il valico.

Raid sulla chiesa greco-ortodossa di San Porfirio a Gaza City
Chiesa greco-ortodossa di San Porfirio a Gaza City | Foto EPA/MOHAMMED SABER – Newsby.it

Crisi umanitaria nella Striscia di Gaza

A due settimane dall’inizio del conflitto, l’enclave è al collasso. Cibo, acqua e farmaci stanno esaurendo. Così pure il carburante essenziale per alimentare i generatori che negli ospedali tengono accesi i macchinari salvavita. Secondo le Nazioni Unite, il sistema sanitario a Gaza è “sul punto di rottura” mentre Medici senza Frontiere ha lanciato l’allarme: gli ospedali sono “quasi al collasso. Manca il personale, i farmaci e le forniture mediche e i medici rimasti non riescono a far fronte al grande afflusso di feriti che ogni giorno arrivano nelle strutture sanitarie”.

Intanto il ministero della Sanità di Gaza ha aggiornato il bilancio delle vittime dei raid israeliani. Dall’inizio della guerra sono morte oltre 4mila persone, inclusi 1.660 bambini. I feriti superano i 13mila. L’Onu stima in oltre un milione, meta della popolazione, il numero delle persone sfollate.

L’enclave palestinese è devastata dai bombardamenti incessanti. Secondo l’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell’Onu, il 25% delle strutture residenziali della Striscia, circa 100mila edifici, è stato distrutto o danneggiato. Stime al ribasso, precisano, vista l’impossibilità di accedere alle zone colpite.

Raid su una chiesa greco-ortodossa a Gaza

Questa mattina è giunta la notizia di un raid sulla chiesa greco-ortodossa di San Porfirio, la più antica di Gaza City. Secondo la Caritas di Gerusalemme, sarebbero almeno 11 i morti e decine i feriti tra il centinaio di sfollati, inclusi cinque operatori dell’organizzazione, che lì aveva cercato riparo. Il ministero della Sanità palestinese parla invece di 17 morti.

Tensioni al confine con il Libano

Mentre continuano le incursioni israeliane su Gaza, resta altissima la tensione al confine settentrionale con il Libano, con il rischio che il conflitto possa allargarsi anche ad altre aree del Medio Oriente. Le forze di difesa israeliane e le milizie di Hezbollah continuano a scambiarsi attacchi reciproci, tra lanci di missili anticarro e colpi di artiglieria. Le ambasciate americana, britannica e tedesca hanno invitato i loro connazionali a lasciare il Paese del cedri al più presto.

Onu: “Possibili crimini di guerra da Israele e da Hamas”

Intanto dalle Nazioni Unite arrivano accuse pesantissime nei confronti di Israele e Hamas. Sei relatori speciali dell’Onu hanno condannato gli attacchi e le violenze contro i civili perpetrati da entrambe le parti. L’uccisione e la presa di ostaggi, l’assedio totale dell’enclave, con la privazione di cibo e acqua, scrivono, costituire tutti violazioni del diritto internazionale umanitario e posso costituire crimini di guerra.

“Azioni terroristiche, non importa quanto terribili, assolutamente non giustificano violazioni del diritto internazionale”, mettono nero su bianco.

Scuole e ospedale piene di civili – principalmente donne e bambini – non posso rappresentare un target militare legittimo, tanto per uno Stato quanto per un gruppo armato non statuale”, denunciano i relatori speciali.

E a proposito del raid che martedì scorso ha colpito l’ospedale Al-Ahli a Gaza City, ribadiscono che “le persone in fuga dai bombardamenti non posso essere prese di mira. Violazioni di queste regole fondamentali possono costruire crimini di guerra e contro l’umanità”.

Il bombardamento dell’ospedale

Resta ancora da chiarire di chi sia la responsabilità del bombardamento sull’ospedale. Anche il bilancio delle vittime rimane controverso. Secondo il ministero della Sanità palestinese i morti sarebbero 471 morti, molti meno per l’intelligence europea (al massimo 50).

Mentre gran parte del mondo musulmano incolpa Israele, lo Stato ebraico affermato di avere “prove” che dimostrerebbero che a causare la strage sia stato un razzo sparato dalla Jihad islamica, poi finito fuori rotta. Fonti dei Servizi statunitensi, citati dal New York Times, scagionano Tel Aviv. “Riteniamo che Israele non sia responsabile dell’esplosione”, dicono pur ammettendo che la dinamica dell’incidente resta poco chiara.

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