Censura e contestazione non sono la stessa cosa: cos’ha subito la ministra Roccella?

I due termini hanno dei significati molto diversi, ma nelle ultime ore sono stati usati spesso in modo improprio

Con il passare del tempo il significato di alcune parole può cambiare: in linguistica questo fenomeno prende il nome di mutamento semantico e non si verifica sempre con delle regole precise. A volte può essere influenzato dai grandi eventi storici, ma in altri casi dipende soprattutto da un uso improprio del termine che, se reiterato nel tempo, può portare ad associarlo a un significato che non ha nulla a che fare con quello originale. È ciò che è avvenuto, per esempio, con la parola buonismo: come spiegato dall’Accademia della Crusca, nei primi anni ’90 del Novecento indicava un “atteggiamento di apertura e di tolleranza nei confronti dell’avversario politico”, mentre ora è usato perlopiù per riferirsi a “un’ostentazione di falsa bontà, in particolare nei confronti dei migranti, di minoranze etniche e talvolta anche di chi delinque”.

La parola “censura” non ha ancora subito un mutamento semantico, tuttavia il suo uso errato sta diventando più comune e può capitare di sentirla associata a comportamenti che sarebbe più appropriato far rientrare nello spettro della “contestazione”.

Cosa differenzia la censura dalla contestazione?

Con il termine censura si indica il controllo della comunicazione da parte di un’autorità. Quest’ultima esercita “un’attività di controllo ideologico e morale sulle opere del pensiero”. La censura è quindi imposta dall’alto e prevede uno squilibrio tra il potere detenuto da chi la impone e quello di chi la subisce. Una manifestazione di dissenso che parte dal basso, invece, non rientra nella sfera della censura, bensì in quella della contestazione, definita dal dizionario come “una posizione di protesta radicale contro le istituzioni e le strutture politiche, sociali, culturali, economiche”.

La ministra Roccella è stata censurata o contestata?

Nel corso del suo intervento agli Stati Generali della Natalità 2024, Eugenia Roccella, la ministra per le Pari Opportunità, è stata subissata dai fischi e dai cori dei manifestanti presenti tra il pubblico a causa delle sue posizioni anti-abortiste. Il clima nell’Auditorium della Conciliazione è rimasto teso anche dopo che gli organizzatori hanno permesso a una delle contestatrici di salire sul palco per esprimere il punto di vista dei collettivi transfemministi Aracne, pertanto Roccella ha deciso di andarsene “per far proseguire il convegno e non far subire ai miei due interlocutori la stessa sorte di censura”. L’uso di quest’ultimo termine è improprio, perché quanto avvenuto rientra senza alcun dubbio nella sfera della contestazione.

Avere a che fare con un pubblico ostile è molto diverso dall’essere zittiti da qualcuno in una posizione di potere. In passato altri politici si sono ritrovati in una posizione simile a quella di Roccella e, grazie al loro eloquio, sono riusciti a gestire meglio la situazione e a portare a termine il loro intervento. È normale che non tutti i membri del governo abbiano lo stesso talento per i discorsi in pubblico o lo stesso carisma, però le difficoltà personali nel gestire la platea non rappresentano una giustificazione all’uso di una parola che ha un significato molto diverso.

Il diritto al dissenso fa parte di qualunque democrazia sana e associarlo alla censura rischia di creare dei precedenti pericolosi. Perché se è vero che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero” è altrettanto vero che esiste uno squilibrio importante tra le occasioni in cui i politici possono esprimere il proprio punto di vista e quelle in cui le masse hanno modo di far sentire la propria voce a chi le governa.

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