Energia nucleare, perché in passato gli italiani non l’hanno voluta?

L’8 e il 9 novembre 1987 il popolo italiano si recò alle urne per votare 5 referendum abrogativi. Tre di essi riguardavano la situazione dell’energia nucleare in Italia, la quale venne bocciata dalla popolazione. Perché venne fatta quella scelta? Vediamo insieme tutti i fattori che hanno contribuito per far vincere il sì, contro l’energia nucleare.

36 anni fa gli italiani dissero di no al nucleare. Ripercorriamo la storia di quel referendum

Il referendum sul nucleare in Italia, tenutosi l’8 e il 9 novembre 1987, ebbe luogo quando nel paese erano presenti quattro centrali nucleari. Queste erano:

  1. La centrale di Latina, con un reattore Magnox da 210 MWe, che era attiva dal 1964.
  2. La centrale Garigliano a Sessa Aurunca (CE), con un reattore nucleare ad acqua bollente (BWR) da 160 MWe. Era stata spenta prima del referendum nel 1982, dopo essere stata fermata per manutenzione nel 1978.
  3. La centrale Enrico Fermi a Trino (VC), con un reattore nucleare ad acqua pressurizzata (PWR) da 270 MWe, che era attiva dal 1965.
  4. La centrale di Caorso a Piacenza (PC), con un reattore BWR da 860 MWe, che era attiva dal 1981 ed era l’unica delle quattro ad essere di seconda generazione.
Centrale nucleare a Trino, in Italia
Immagine | Pixabay @DarioEgidi – Newsby.it

Negli anni ’70, l’Italia aveva visto un aumento dei prezzi dei prodotti petroliferi a causa delle tensioni nel Medio Oriente, il che aveva portato a un maggiore interesse per l’energia nucleare nel Piano Energetico Nazionale del 1975. Questo piano prevedeva la costruzione di ulteriori otto unità nucleari su quattro nuovi siti.

Il referendum abrogativo in Italia riguardava cinque quesiti, ma nessuno di essi affrontava direttamente l’abbandono del nucleare nel paese. Ecco una breve descrizione dei quesiti:

  1. Il quesito 3 riguardava l’abrogazione della facoltà del CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) di deliberare sulla localizzazione delle centrali nucleari nel caso in cui gli enti locali interessati non avessero raggiunto un accordo. Il “sì” vinse con l’80,57% dei voti.
  2. Il quesito 4 chiese l’abrogazione dei contributi agli enti locali che ospitassero centrali nucleari o a carbone sul proprio territorio. Il “sì” vinse con il 79,71% dei voti.
  3. Il quesito 5 riguardò l’esclusione dell’Enel, all’epoca ancora un ente pubblico, dalla partecipazione alla costruzione di centrali nucleari all’estero. Anche in questo caso il “sì” vinse, con il 71,86% dei voti.

Nonostante nessuno dei quesiti affrontasse direttamente l’abbandono del nucleare in Italia, questi risultati complessivamente rappresentarono una significativa opposizione al programma nucleare nel paese. Il quorum venne raggiunto con un’affluenza alle urne del 65,1% su circa 45,8 milioni di aventi diritto al voto.

L’incidente di Three Mile Island avvenuto il 28 marzo 1979 negli Stati Uniti rappresentò un punto di svolta per il nucleare non solo negli Stati Uniti ma anche in Italia. Sebbene non ci siano state vittime o feriti nell’incidente, la fusione parziale del nocciolo della centrale nucleare generò preoccupazioni sulla sicurezza nucleare e comportò la dispersione di piccole quantità di gas radioattivo nell’ambiente.

In Italia, già prima dell’incidente, si stavano verificando proteste contro la costruzione della centrale nucleare di Montalto, prevista per il 1982. L’incidente di Three Mile Island accelerò le proteste e portò a una grande manifestazione a Roma, con la partecipazione di circa 20.000 persone. Questo segnò l’inizio di un aumento delle iniziative antinucleari.

Nel 1980, Maurizio Sacchi del PSI e Chicco Testa fondarono la Lega per l’Ambiente, che in seguito divenne Legambiente. Questo movimento fece del rifiuto del nucleare uno dei suoi punti centrali. L’incidente di Three Mile Island influenzò anche la decisione di non riaccendere la centrale di Garigliano e di ritardare l’inizio dell’esercizio commerciale per quella di Caorso. In questo modo, l’opinione pubblica italiana divenne sempre più critica nei confronti del programma nucleare nel paese.

Il nucleare continuò a essere parte integrante del Piano Energetico Nazionale (PEN) del 1985, che prevedeva la costruzione di nuove centrali con una capacità complessiva di 12 GW entro il 2000. L’obiettivo principale era diversificare il mix energetico nazionale e ridurre la dipendenza dall’importazione di petrolio.

Tuttavia, il 26 aprile 1986 si verificò il disastro nucleare di Chernobyl, che ebbe un impatto devastante sull’opinione pubblica nei confronti del nucleare. Il mese successivo, circa 200.000 persone si riunirono a Roma per manifestare contro il nucleare. Il Partito Radicale promosse i referendum, raccogliendo un milione di firme in meno di quattro mesi. Nel novembre dello stesso anno, i movimenti ambientalisti si unirono per formare un nuovo soggetto politico, la Federazione delle Liste Verdi.

L’incidente di Chernobyl e le proteste che ne seguirono segnarono una svolta significativa nella politica energetica italiana, portando a una crescente opposizione al nucleare e alla promozione delle fonti di energia rinnovabile e sostenibile.

Il 24 febbraio 1987 si tenne la prima Conferenza Nazionale sull’Energia e l’Ambiente (CNEA). Il gruppo Economia, Energia e Sviluppo della Commissione Scientifica incaricata di stilare una relazione si mostrò diviso. In generale, da una parte i fautori temevano le ripercussioni economiche, industriali e sociali che l’abbandono del nucleare avrebbe comportato. Dall’altra, gli antinuclearisti sostenevano che politiche di risparmio energetico e sviluppo delle rinnovabili avrebbero costituito un’alternativa sufficiente.

Per comprendere perché il referendum non si svolse prima della fine del 1987, bisogna partire dagli eventi politici. Nello stesso anno si stava verificando una crisi di governo interna al Pentapartito. Le divergenze tra la DC guidata da Ciriaco De Mita e il PSI di Bettino Craxi culminarono, il 28 febbraio 1987 nelle dimissioni di Craxi da capo di governo. Gli antinuclearisti temevano un intervento legislativo che bloccasse definitivamente il referendum e ne chiedevano lo svolgimento prima delle elezioni anticipate. La data del referendum fu fissata per novembre, mentre le elezioni si tennero a giugno. La DC continuò a detenere la maggioranza, con l’insediamento del governo Goria.

La vittoria del “sì” nei referendum del 1987, che portò alla dismissione delle centrali nucleari in Italia, fu influenzata da diversi fattori. Innanzitutto, l’incidente di Chernobyl aveva generato timori diffusi riguardo ai rischi del nucleare, alimentando un sentimento antinucleare nella popolazione. Inoltre, dopo le elezioni, sia la Democrazia Cristiana (DC) che il Partito Comunista Italiano (PCI) assunsero posizioni a favore del “sì” per evitare un calo di consensi.

I quesiti 1 e 2 dei referendum, che riguardavano la responsabilità civile dei magistrati e il trattamento dei reati ministeriali, ottennero percentuali di voto simili a quelli dei quesiti antinucleari. Nonostante la dismissione delle centrali nucleari non fosse esplicitamente richiesta nei quesiti, questa fu la conseguenza naturale del referendum.

Tra il 1987 e il 1990, tutte le centrali nucleari rimaste in attività furono definitivamente fermate. I lavori inizialmente previsti per la centrale di Montalto furono riconvertiti per la realizzazione della centrale a policombustibile Alessandro Volta. Nel 1999, la Società Gestione Impianti Nucleari (SOGIN) acquisì la proprietà delle quattro ex-centrali, con il compito di gestire il decommissioning. Questo segnò la fine della produzione di energia nucleare in Italia.

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