Un vino solo può scrivere la storia:
il caso del Montevetrano

Un vino solo può scrivere la storia. Di una persona, di un territorio, di una comunità. È il caso del Montevetrano di Silvia Imparato, vino rosso ottenuto da uve cabernet sauvignon in prevalenza, merlot e aglianico, prodotto a partire dal 1991 a San Cipriano Picentino, un piccolo paesino incluso nel Parco Regionale dei Monti Picentini, in provincia di Salerno.

Silvia Imparato dalla metà degli anni Ottanta cambiò vita e riuscì a creare dal nulla un vino considerato, per oltre due decenni e ancora oggi, un mito dell’enologia italiana dalla critica nazionale e internazionale.
“Ho fatto la fotografa e so benissimo che il mito serve. Solo che poi devono farlo fuori per farne emergere un altro”, afferma la Imparato, denunciando tra le righe la fatica del rimanere sempre al vertice, attraversando gli anni e le mode, confermando nel tempo la fedeltà al proprio progetto.

Cosa ha provato quando il suo Montevetrano iniziò a essere segnalato come “vino mito” nelle recensioni della critica nazionale e soprattutto quella d’Oltreoceano?
“Ho sempre saputo che con l’affermazione del Montevetrano avrei avuto una sola scelta: o riuscivo a tenere alta la qualità di questo prodotto oppure sarei subito stata fatta fuori come un fenomeno divertente del momento”. “All’inizio non avevo pensato di fare un vino per il mercato. Io avevo pensato di fare un vino con i miei amici e per i miei amici perché ci divertivamo un sacco. Poi alcuni degli amici sono diventati famosissimi…”.

Silvia, tra gli altri, qui si riferisce anche a Renzo Cotarella, suo amico e a quel tempo già enologo della famiglia Antinori e oggi Amministratore Delegato della Marchesi Antinori Spa, che le suggerì il supporto del fratello Riccardo -attualmente Presidente di Assoenologi– che ha avviato con lei il progetto Montevetrano e che l’ha poi seguita nel suo percorso di produttrice negli ultimi trent’anni. Tra gli amici di allora anche Daniele Cernilli, giornalista enogastronomico e scrittore, cofondatore del Gambero Rosso nel 1986, da sette anni direttore responsabile di DoctorWine.

Il contributo di Riccardo Cotarella nel Montevetrano

Qual è stato il contributo di Riccardo Cotarella nel Montevetrano?
“La mia preoccupazione principale era sempre la stessa. Che lui non fosse gentile con me perché ero un’amica di suo fratello, ma che capisse che io stavo cambiando vita e che stavo puntando fortemente sulla campagna dei miei nonni e sulle proprietà di famiglia, in un luogo dal quale molti giovani e figli se ne erano andati o se ne stavano andando. Riccardo ha ben compreso le mie esigenze, anche quelle di una storia agricola preesistente che doveva continuare”.

E pensa di essere riuscita nell’intento di preservare dall’abbandono la storia agricola e familiare che ruota attorno a Montevetrano?
Sì, anche grazie alla presenza del mio cantiniere, Mimì, che dal primo istante si è messo a disposizione per lavorare con noi e restare a San Cipriano”.

Domenico La Rocca, detto Mimì, figlio e nipote di contadini locali, ha accolto di buon grado e sin da subito il progetto Montevetrano, rinnegando il vecchio modo di fare vino che portava a bilance stracariche di uve da avviare alla vinificazione.
“Ha avuto l’apertura mentale, già da ragazzino, di capire che una diversa gestione del vigneto, la pulizia e l’ordine della cantina portavano a un vino di sicura qualità, basandosi sul confronto con esperti produttori e tecnici di altre zone italiane”.

Il rapporto di Silvia Imparato con l’aglianico

Attorno alla tenuta di ventisei ettari di Montevetrano, grazie alla scelta di vita di Silvia, si raccoglie oggi una piccola comunità, stanziale e stagionale, alla quale ha deciso di unirsi anche Gaia, la figlia di Silvia, dopo una proficua parentesi formativa e professionale nel mondo della grafica che l’aveva portata a Milano.

Le uve per il Montevetrano –vino classificato come Colli di Salerno Rosso Igt– arrivano da cinque ettari di vigneto. Un blend che agli inizi degli anni Novanta ha proposto l’unione di vitigni internazionali più versatili, come il cabernet sauvignon, in prevalenza, e il merlot, con una piccola quota di aglianico, vitigno rosso tipicamente campano, seguendo una strada già battuta in altre terre vitivinicole italiane, soprattutto in Toscana, dell’accostamento tra vitigno internazionale e vitigno locale. Dal 2010 si decise di aumentare la quota di aglianico nel blend che oggi arriva al 30% a discapito dei due bordolesi. L’aumento della presenza dell’aglianico dona a questo vino -da sempre affascinante per profondità, stratificazione, fittezza, complessità, struttura e tenuta nel tempo- un passo meno concitato e una sigla aromatica più spontanea e “campestre”, di radici ed erbe medicinali, che non fanno altro che aumentare l’idea di radicamento territoriale per questo prodotto.

Qual è il suo rapporto con l’aglianico?
“Da un po’ di tempo pensavo che volevo fare un aglianico in purezza. Seguivo Riccardo nelle sue esperienze produttive campane con questo vitigno e ne rimanevo sempre più affascinata. Nei nuovi vigneti ho prima inserito più aglianico, che poi ha dimostrato negli anni di essere una spalla importante per il nuovo profilo del Montevetrano. Ma lo stesso aglianico, da solo, non aveva la forza, o almeno non ce l’ha ancora, per essere un cru, che è quello che avrei voluto proporre per un nuovo vino per la mia azienda. Allora abbiamo deciso, anche grazie all’esperienza acquisita negli anni da Riccardo in Campania, di adoperare l’aglianico proveniente da vigne regionali da sempre votate a questo vitigno, e quindi con una storia e una tradizione e un vissuto che potessero dare una garanzia superiore. Dopo molte prove effettuate siamo approdati a una selezione prodotta nel Sannio beneventano che dà vita al Core Rosso. Abbiamo dimostrato che anche in questo modo si può fare vino di qualità e anche a un prezzo accessibile”.

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