Mario Corso è morto: addio al “piede sinistro di Dio” dell’Inter

Se anche in Italia da generazioni esiste e resiste l’assunto per cui un fuoriclasse che segna e incanta con il piede sinistro, non ci sono Didì, Rivelino o Maradona che tengano, il merito è soprattutto suo. Perché Mario Corso ha riscritto i parametri del calcio, tra gli anni ’50 e soprattutto ’60, con quelle punizioni mancine. Perfette. Imprendibili. Che sui campi nostrani non si erano probabilmente ancora mai viste. E hanno fatto epoca.

Un piede sinistro che fece storia

Tanto che si diffuse il nomignolo di “piede sinistro di Dio“. Lo utilizzò per primo Gyula Mándi, che allenava la Nazionale di Israele e il 15 ottobre 1961 si vide sconfitto dall’Italia proprio a causa di un calcio da fermo di Mario Corso. Erano le punizioni che la stampa definì a “foglia morta”: non particolarmente potenti ma cariche di effetto, superavano in linea retta le barriere per poi piegarsi verso l’angolino in caduta. Un fenomeno balistico per quegli anni prodigioso e quasi inspiegabile, che sopravviverà a questo fuoriclasse nato a San Michele Extra, periferia est di Verona. E che si è spento a 78 anni d’età.

Mario Corso da giorni era ricoverato in ospedale, e non ce l’ha fatta. La sua morte è stata confermata dall’Ansa e anche dalla stessa Inter. Che lo ha salutato con queste parole: “È scomparso Mario Corso, interista, campione eterno dotato di infinita classe. Con il suo sinistro ha incantato il mondo in una squadra che ha segnato un’epoca. I pensieri e l’affetto di tutti noi vanno alla famiglia in questo momento difficile“.

Come Mario Corso stravolse i canoni

Dal punto di vista estetico, Mario Corso era ben lontano dagli attuali canoni del campione di calcio. Perfino quelli della sua epoca. Precocemente scarsocrinito, orecchie pronunciate, anche il suo tono di voce alto e aspirato non ne facevano un animale da interviste. Laddove nel suo spogliatoio c’erano l’erculeo Giacinto Facchetti, il figlio perfetto delle casalinghe di mezza Italia Sandro Mazzola, un condottiero con la faccia da condottiero, come Armando Picchi. Lui invece, ultima strofa dell’eterna filastrocca (“Sarti, Burgnich, Facchetti”… fino appunto a “Corso”), era in qualche modo l’eccezione alla regola. La rotella impazzita nel perfetto ingranaggio di Helenio Herrera.

Un numero 11 che non agiva da numero 11: non si lanciava in quelle corse a pieni polmoni sulla fascia sinistra che in quegli anni erano la regola. Addirittura Gianni Brera amava sbertucciarlo ricordando che il suo nome equivale al “participio passato del verbo correre“. E peraltro amava sfruttare quel sinistro fatato partendo in posizione arretrata di qualche metro rispetto a dove i rigidi canoni di quegli anni lo avrebbero collocato. Di fatto era un “trequartista”, prima ancora che questo termine trovasse reale fortuna. E lui, mancino e numero 11, per sfruttare il piede caldo amava trovare ricovero – sacrilegio – sulla fascia destra. Altro che Robben: se oggi i mancini partono dalla parte opposta e incrociano sul piede buono, è anche grazie a Mario Corso.

Un innovatore, silenzioso e letale, non fortunato con la Nazionale (si perse tutti i Mondiali a cui avrebbe potuto e forse dovuto prendere parte, 1962, 1966 e 1970, per i più svariati motivi), ma che ha fatto la storia. Rendendo grande l’Inter e attraversandone almeno tre epoche diverse, nelle sue sedici stagioni in nerazzurro (dal 1957 al 1973). E che fotograficamente resta impresso anche per i calzettoni abbassati, massimo segno di ribellione in quegli anni in cui il calcio aveva canoni da rispettare molto precisi. Mario Corso li sovvertì tutti.

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