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SPORT

Rangnick, il “convitato di pietra” a cui iniziano a fischiare le orecchie

Il detto popolare ammonisce: quando ci fischiano le orecchie, è perché qualcuno sta parlando (bene o male, ma generalmente male) di noi. Se tanto ci dà tanto, e se davvero la massima ha un minimo di traslazione nella realtà, il ronzio nei timpani di Ralf Rangnick in questi giorni dev’essere fortissimo. Al limite del sostenibile.

Un convitato di pietra, anzi di travertino, il mister (ioso) teutonico. Il suo arrivo a Milano non ha ancora la cera lacca dell’ufficialità, ma il suo nome già imperversa nei corsivi dei giornali, nei “pipponi” degli opinionisti, nei cicalecci dei tifosi sui social. Del resto, è difficile non tirarlo per il bavero della giacca: nel clima ovattato delle porte chiuse post-lockdown, il Milan a cui è promesso sposo si è messo a galoppare baldanzoso. E va che è un amore: segna, vince, diverte e inizia a pregustare il pass per l’Europa, tutt’altro che scontato in inverno prima che facesse capolino il Covid-19.

Quindi ogni notte, quando è tempo di riflessioni, moviole, concioni e mix zone, tutto il carrozzone pallonaro si chiede: si può davvero mettere alla porta Pioli? D’accordo, il Milan da qualche anno brucia tecnici alla velocità con voracità da altoforno. Stavolta però non è troppo spudorata la faccenda?

La panchina del Milan letta dagli occhi di Gazidis

Certo che lo è, a leggerla così. Diventa invece meno esagerata, se la si legge con gli occhi di Gazidis. E dell’attuale plancia di comando del Milan. Basta ascoltare i rumors che si susseguono in queste ore: all’ombra della Madonnina, Rangnick sarà allenatore, ma pure uomo mercato e supervisore del settore medico e fisioterapico. Forse, per quando arriverà la firma del contratto, pure magazziniere e addetto al giardinaggio a Milanello. L’intento, comunque, è chiaro: abbandonata la via identitaria con Gattuso, fallita quella dell’uomo “gavetta” con Giampaolo, i signori del fondo Elliott vogliono una ventata di nuovismo con ampie spruzzate di mentalità cosmopolita. Ed ecco il factotum.

Insomma, guerra senza quartiere al provincialismo, idee nuove, approccio manageriale spinto: tutto bellissimo, considerando poi che il brand “Milan”, tra i più famosi al mondo, si presta. Davvero però è Rangnick è l’uomo giusto al momento giusto? Il preconcetto, ora che il Milan fa la voce grossa in campionato, regna sovrano. Non siamo al “signora mia dove andremo a finire”, ma quasi. Però la storia di questo 62enne nativo del Baden-Wurttemberg, è particolarissima. E non banale.

Ralf Rangnick 2011 @xtranews.de

La storia di Ralf Rangnick

Da giocatore, beh, si sono viste carriere migliori: qualche lampo da dilettante e nient’altro. L’attenzione maniacale ai vari aspetti del gioco, però, quella c’è già in età verde. A neanche trentanni, quando decide che con scarpini e parastinchi basta così, quell’attenzione si trasforma in fissazione. Iniziano anni intensi di studio “matto e disperatissimo”, alla Leopardi. Folgorato dal pressing asfissiante della Dinamo Kiev di Valeriy Lobanovskyi, sul calare degli anni ’80 entra in fase di studio ossessivo-compulsivo del Milan di Sacchi. E’ ammaliato da come quel pressing sfianca-avversari riesca poi a tramutarsi in gioco delizioso. E in vittorie. Al videoregistratore, insieme al suo grande amico Helmut Gross, Rangnick va letteralmente in palla nel rivedere come Baresi, Tassotti, Maldini e banda fanno scattare la trappola del fuorigioco. Nei primi ’90, c’è poi il flirt col Foggia di Zeman, esegeta di un calcio tanto spregiudicato quanto avveniristico.

Rangnick, un mix tra Lobanovskyi, Sacchi e Zeman

Insomma, shakerando insieme Lobanovskyi, Sacchi e Zeman, il duo Rangnick-Gross approda nelle giovanili dello Stoccarda. E quello studio forsennato continua, con giovani generazioni di assi tedeschi come cavie. Quando Rangnick poi va per la sua strada, c’è già il fare da cattedratico. Di un semplice schema è in grado di mettere a punto anche una dozzina di varianti. Nel 1998, quando allena l’Ulm spiega in diretta tv il “gegenpressing”, evoluzione di quello mostrato al mondo da Sacchi dieci anni prima. E per tutti diventa “the professor”.

Però la sua carriera non decolla. Coi giovani lavora che è una meraviglia, vivacchia in Bundesliga tra Stoccarda, Hannover 96 e Schalke 04, ma senza nessun acuto. In molti ritengono le sue teorie troppo complesse, con sofisticherie esagerate per uno sport dove 22 poveri cristi in mutande passano un’ora e mezza a correre appresso a una palla. Rifiuta persino il ruolo di vice-Klinsmann agli Europei del 2004: al suo posto ci va un certo Joachim Low, che dieci più tardi alzerà la Coppa del Mondo in Brasile da timoniere della nazionale tedesca.

La svolta sulla panchina dell’Hoffenheim

Con l’Hoffenheim, dal 2006, arriva la svolta. Progetto da plasmare da cima a piedi: porta la squadra nella massima serie e la sua filosofia tecnica, tattica e gestionale va sotto la luce dei riflettori. Tanti big iniziano a “spizzarlo” con la coda degli occhi (anche gente come Klopp e Low), e soprattutto in molti si ingolosiscono di fronte ai giovani talenti che escono dal suo cilindro.

Il resto è storia recente: una semifinale di Champions conquistata con lo Schalke 04, quindi il ruolo di “Head of sport and development soccer” del colosso Red Bull. Una sorta di Ceo delle tante realtà calcistiche che la major austriaca ha nel suo portafogli. Il vangelo calcistico di Rangnick fa leva sulle tre “K”: Kapital, Konzept und Kompetenz. Capitale, concetti e competenza. Insomma, se il calcio non è di certo una scienza esatta, richiede comunque un tasso di studio elevatissimo nell’universo “rangnickiano”.

Ora: tutto ciò è applicabile a una realtà come il Milan, uscita solo tre anni fa da un’epopea trentennale che ha riempito capitoli di storia del giuoco, con annessa scorpacciata di trofei? Forse no. Forse Rangnick è davvero un animale da campus universitario o da contesti sperimentali. Però il nuovo board del Milan vuole provarci, sesto posto per sesto posto. Ci sarà pazienza stavolta nel clan rossonero? Eh, ora ne volete troppe: vai a sapere. Certo, con Pioli che lascerà un ambiente se non altro rinfrancato, sul “professore” ci sarà subito pressione massima. Anzi, un bel “gegenpressing”.

Valerio Mingarelli

Nato a Fabriano, ai piedi degli Appennini, nel 1980. Ho iniziato a “gattonare” nelle testate locali umbre e marchigiane grazie al basket e al calcio. Giornalista professionista dal 2008, da allora tra Milano e Roma ho sempre fatto il viandante dell’informazione girovagando per radio, TV, quotidiani, agenzie e uffici stampa. Con la penna o col microfono in mano, mi sono sempre divertito da matti. Oggi seguo perlopiù le vicende del Parlamento nostrano, ma lo sport rimane sempre una passionaccia elettrizzante.

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