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SPORT

Flop, Klopp e Kop: Reds trionfo di progettualità e amore indefesso

Coi pensieri e coi tormenti, molti giocatori erano già sintonizzati con l’imminente mondiale italiano, in quel 28 aprile del 1990. Soprattutto al di là della Manica: in vista dell’estate – giuravano in molti anche da noi nel Belpaese – la “perfida Albione” era pronta a fare sul serio. A Downing Street furoreggiava ancora “The Iron Lady”, Margareth Thatcher, prossima però al crepuscolo definitivo del suo interminabile gabinetto. La Premier League non si chiamava ancora Premier League: era la First Division, l’Olimpo della madrepatria del futbòl (quello moderno, almeno).

La Kop, mirabile muraglia umana tinta di rosso vermiglio, ad Anfield Road era in giubilo, mentre a Birmingham si consumava lo sbaraglio a domicilio dell’Aston Villa contro l’inopinato Norwich City. C’era ormai il suggello dell’aritmetica: per la diciottesima volta in poco meno di un secolo, i Reds erano sul trono d’Inghilterra. Icone del trionfo, il “baffetto” del gallese Ian Rush, rientrato dopo una parentesi catastrofica in Italia nella Juve degli Agnelli, e il sorriso contagioso del mezzo giamaicano John Barnes. Un Niagara di birra invadeva il Merseyside: in pochi lo sapevano, ma con la festa quel giorno partiva anche una lunghissima traversata nel deserto per il blasonato Liverpool Football Club.

Il lungo e tormentato cammino del Liverpool

Un lungo e tormentato cammino, che sul suolo patrio si è concluso soltanto dopo trent’anni tondi tondi. Nel bel mezzo di una pandemia e al termine del torneo più strano e accidentato che gli almanacchi del pallone ricordino. Certo, non che i Reds abbiano fatto le comparse in questi tre decenni. Su scala internazionale, le loro mensole hanno continuato a riempirsi di coppe, coppette, targhe e gagliardetti. Quel titolo nazionale, però, era diventato una sorta di tarlo. Una “bad obsession” fastidiosissima, per una realtà tra le più sanguigne del calcio mondiale. Rossi come il sangue, appunto, e rossi d’amore: “You’ll never walk alone” è per tutti più di un coro da stadio. È la colonna sonora di un Kolossal: quello del Liverpool, della Kop, e di un’identità forse senza eguali in nessun anfratto calcistico del pianeta.

Per sfatare l’incantesimo, c’è voluto un nocchiero capace di fare i conti con quell’amore. Uno che sapesse shakerare con maestria romanticismo e progettualità, tradizione e sperimentazione, bel gioco e risolutezza. Jurgen Klopp si è rivelato il timoniere giusto. Perché ama molto più progettare che allenare. E perché non è ossessionato dalla modulistica e dalle fredde regolette tattiche da impartire ai suoi: gli interessa molto più dare visione e orizzonte all’ambiente che vive.

Per togliersi di dosso l’etichetta di perdente, bisogna perdere molto”, è una delle sue convinzioni più note. Non è un caso forse che Klopp faccia rima con flop. Nonostante questo, in questi cinque anni ha sempre avuto le idee nitidissime. Ha capito subito che quell’amore ossessivo-compulsivo che circonda i Reds è più spinta che zavorra. Del resto, nonostante il pluriennale digiuno in Premier, le frecce di Cupido verso chi indossa quella maglia sono sempre arrivate dagli spalti di Anfield Road.

Una squadra costruita nel tempo

Salah dalla Roma, Henderson dal Sunderland, Van Dijk e Manè dal Southampton, Firmino dall’Hoffenheim, Robertson dall’Hull City: in tanti hanno gridato al TSO, mentre il mister teutonico faceva spendere fior di sterline alla dirigenza per giocatori di dubbia consistenza. Tutte scommesse vinte, a dimostrazione che è facile coi soldi buttarsi sui Ronaldo e i Neymar, un po’ meno quando c’è da pescare materiale umano per imbastire progetti di lenta gestazione.

Già, i flop: nelle prime tre stagioni, i bocconi aspri sono svariati. Un ko in finale di League Cup, uno in finale di Europa League, uno in finale di Champions contro l’ultimo Real Madrid griffato CR7. Mugugni e brusii ovunque. Un cantiere aperto h24, le cui buone fondamenta però si sono intraviste da subito. Et voilà: negli ultimi due anni, la galoppata di Klopp e dei Reds ha assunto i contorni dell’epica. Champions League, Mondiale per Club, Supercoppa Europea e, ciliegina sulla torta, la rimozione del tarlo: la Premier League. La prima, visto che quel 28 aprile 1990 non si chiamava così.

Il successo del Liverpool è la vittoria dell’identità. E dell’amore indefesso di un microcosmo che vive il calcio alla stessa maniera sia quando è al top, sia quando vive un flop. E di un tecnico-manager che lo ha capito immediatamente, come nessun altro prima. Che pinta da un litro sia.

Valerio Mingarelli

Nato a Fabriano, ai piedi degli Appennini, nel 1980. Ho iniziato a “gattonare” nelle testate locali umbre e marchigiane grazie al basket e al calcio. Giornalista professionista dal 2008, da allora tra Milano e Roma ho sempre fatto il viandante dell’informazione girovagando per radio, TV, quotidiani, agenzie e uffici stampa. Con la penna o col microfono in mano, mi sono sempre divertito da matti. Oggi seguo perlopiù le vicende del Parlamento nostrano, ma lo sport rimane sempre una passionaccia elettrizzante.

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