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Caporetto Europea delle italiane: disamine ritrite e falsi miti

Ci si sperava: le “Idi” di marzo dovevano aprire la settimana del “revanchismo” del Belpaese nella campagna d’Europa. Al contrario, sono arrivate legnate, docce fredde, scivoloni e prese d’atto, in una Caporetto diffusa che ha riacceso la corsa alla diagnosi sul calcio nostrano. Sul cui pessimo stato di salute, francamente, non serviva un’infausta settimana come quella passata per averne contezza. La grandinata di disamine, analisi e sedute terapeutiche di gruppo sui sofà televisivi, ci è sembrata una storia trita e ritrita. Una messa cantata già ampiamente udita e assimilata.

Juventus, Atalanta, Milan: la Serie A è competitiva?

Quindi? Quindi è ora di andare oltre. Da noi si corre poco? Vero, ma non è sta gran novità. Se per decenni il nostro è stato il calcio di catenacciara memoria, giusto per dirla con Gianni Brera, non è cambiato troppo anche quando sono arrivati negli anni ’80 fuoriclasse moderni (Platini, Maradona, Van Basten, Matthaus e via dicendo): la serie A non è mai stato un torneo per super-atleti. Anche sulle tecniche di preparazione assistiamo ogni volta a un florilegio di approfondimenti e pareri, ma la verità è che la questione è endemica. Si sprigiona poco quid atletico sul rettangolo verde perché, da sempre, il calcio a viso aperto è poco nel Dna dello Stivale. Abbiamo una scuola che si è forgiata a pane e tattica, quindi è farsesco solo pensare che nelle rose possano esserci almeno 7-8 potenziali decatleti, seppur stranieri.

Atra cantilena: non è un campionato per sbarbatelli. Vero. La filastrocca sulle nostre squadre che tengono i giovani in tribuna, in panchina o in prestito chissà dove, la sentiamo sinceramente da quando in campionato la vittoria ancora valeva due punti. Però non è che altrove vediamo in campo un dilagare di acne giovanile: l’età media delle rose di serie A è di 27,1 anni, pari a quella della Premier League e sotto a quella della Liga spagnola che sta a 27,7 anni, torneo più vegliardo del Vecchio Continente. Quindi ci troviamo di fronte a un falso mito. Da noi i talenti in età verde trovano poco spazio, certo. Però tutto il mondo è paese da questo punto di vista.

Il calcio italiano e l’approccio con l’Europa

Ogni anno, insomma, stiamo lì a cercare di diagnosticare malattie e a prescrivere cure a un malato, il calcio italiano, che sembra cronico nell’approccio a livello europeo. Almeno ci siamo tolti di torno la scusante dei budget, che 5-6 anni fa la faceva da padrona. Perché di certo Juventus e Inter non è che foraggino meno quattrini di Porto o Borussia Moenchengladbach, per intenderci. E anche rispetto ad altri top club europei i soldi che girano quelli sono. E sono tanti, Covid o non Covid.

Soldi che però continuano a condizionare l’approcciarsi delle nostre squadre alle competizioni europee. Perché questi flop che ogni anno si susseguono tra Carnevale e Pasqua, sono tutti figli di un approccio sistemico ormai completamente sbagliato. Consolidatosi soprattutto nell’ultimo decennio, dove si è vista sempre la stessa squadra prevalere tra i confini nazionali. Bisogna essere sinceri: quando un team italiano che non si chiami Juventus supera il girone di Champions, si mette già a pensare alla Champions dell’anno successivo. In questi anni è stato sempre così.

C’è qualcosa che scema, e arrivano le imbarcate: la domenica ci si spreme per battere l’Udinese in casa “per non perdere il treno Champions”, e il mercoledì si vanno a prendere legnate una volta udita la sigla della Champions League. Se non si supera il girone e si “retrocede” in Europa League, peggio ancora. Conta troppo di più per tutte finire il campionato tra le prime quattro che fare strada in Europa League. Per soldi, blasone e inerzie consolidate. Così si vedono scelte di formazione incomprensibili tra campionati e coppe, e i corsivisti aprono le loro considerazioni con menate del tipo “ora che il Napoli (ma può essere il Milan, la Lazio, l’Atalanta o chi per esse) è fuori dall’Europa, in campionato la musica è destinata a cambiare”.

Non è così che si può continuare a ragionare. Non si può insistere a vivere come a un grande successo la sola qualificazione alle coppe europee. “Grazie al quarto posto, la squadra X potrà fare mercato in estate”. Sono considerazioni folli e sghembe. Bisogna scardinare questo loop folle, e purtroppo non sarà facile.

Valerio Mingarelli

Nato a Fabriano, ai piedi degli Appennini, nel 1980. Ho iniziato a “gattonare” nelle testate locali umbre e marchigiane grazie al basket e al calcio. Giornalista professionista dal 2008, da allora tra Milano e Roma ho sempre fatto il viandante dell’informazione girovagando per radio, TV, quotidiani, agenzie e uffici stampa. Con la penna o col microfono in mano, mi sono sempre divertito da matti. Oggi seguo perlopiù le vicende del Parlamento nostrano, ma lo sport rimane sempre una passionaccia elettrizzante.

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