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“Le terapie intensive sono in grave sofferenza già da dieci giorni. Il numero di pazienti Covid che stiamo trattando è diventato molto importante. In qualche modo bisogna impedire che questo aumenti. O non reggeremo a lungo“. Queste le dure parole del professor Luca Cabrini, responsabile della Terapia Intensiva Generale dell’Ospedale di Circolo di Varese.
Sia i reparti dedicati a contrastare il Coronavirus che in generale la terapia intensiva stanno andando incontro a un aumento di lavoro progressivo, inarrestabile e purtroppo drammatico. “Progressivamente abbiamo dovuto riconvertire in Covid dapprima la rianimazione generale, poi quella cardiochirurgica e infine quella neurochirurgica. Purtroppo anche questo non basterà, perché la situazione è simile a quella di marzo. E ci serviranno ulteriori spazi“, aggiunge Cabrini.
A Varese, dove fino a qualche giorno fa si era cercato di esorcizzare la paura con un omaggio ai Beatles, ora la resilienza e la speranza nel reparto di Terapia Intensiva Generale hanno lasciato di nuovo spazio a un profondo sconforto: “Durante l’estate pensavamo di aver lasciato l’incubo alle spalle. Avevamo avuto giusto il tempo per riprendere fiato e di sperare che tutto fosse ormai alle spalle. E invece una serie di eventi ci hanno riportato a rivivere quei momenti. Siamo in un incubo, e siamo più stanchi e provati. Anche un po’ frustrati“.
Anche i medici e gli infermieri confermano le parole del primario della Terapia Intensiva: “La situazione è pressoché identica al periodo di marzo e aprile. Siamo tornati a mettere la tuta, entrare in reparto, e non sapere quando riusciremo ad uscire. Tutto è uguale a prima“.
C’è però un aspetto che è cambiato dalla scorsa primavera. E all’ospedale di Varese lo hanno capito molto bene. “Rispetto alla prima ondata – spiega infatti Cabrini – la cosa che manca sono le immagini forti dalla terapia intensiva. O delle bare, che erano servite più di mille parole per far comprendere la gravità della situazione alle persone. E ora non ho solo paura di vedere persone che muoiono, ma anche persone che entrano in ospedale. Perché anche chi ce la fa, vive un’esperienza veramente dura“.
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